L’EFFICACIA DEL MODELLO ORGANIZZATIVO 231 NEI REATI LEGATI ALLO SFRUTTAMENTO DELLA MANODOPERA
Si riporta l'articolo del nostro Marco D'Orsogna Bucci presente nel quarto numero 2024 della rivista del Gruppo ODCEC Area Lavoro “Noi e il lavoro”, http://bit.ly/3VltESG, dove viene trattato il tema dell'efficacia del modello organizzativo 231 nei reati di sfruttamento della manodopera.
Contesto normativo: D.lgs. 231/2001
La materia della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato è regolamentata dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 – Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società edelle associazioni ancheprivedipersonalità giuridica, nei limiti e con l’osservanza dei principi e criteri direttivi indicati nella legge delega 29 settembre 2000 n. 300.
Il D.lgs. n. 231/2001 ha concepito un illecito amministrativo complesso, ovverosia un sistema punitivo che “coniuga i tratti essenziali del sistemapenale e di quello amministrativo, nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle non eludibili della massima garanzia”.
Viene introdotta, per la prima volta nel nostro ordinamento, una responsabilità penale dell’ente (enti forniti di personalità giuridica e società e associazioni anche prive di personalità giuridica) e attraverso lo strumento sanzionatorio, di natura pecuniaria e interdittivo, si incide sul patrimonio aziendale e sulla sua possibilità di operare sul mercato.
Da tale responsabilità il soggetto persona giuridica può esimersi adottando modelli di organizzazione e di gestione finalizzati alla prevenzione di tali reati. In tale eventualità, l’elusione fraudolenta del meccanismo di monitoraggio da parte del reo non annulla l’efficacia dell’esimente, purché l’ente sia in grado di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per la prevenzione dei reati (cd. inversione dell’onere della prova) e purché si dimostri che il modello stesso sia stato efficacemente attuato.
La responsabilità si configura in capo all’ente in occasione del compimento di determinati reati da parte del vertice aziendale, dei dipendenti e di quanti sono sottoposti alla direzione o alla vigilanza dello stesso (soggetti con cui vi è un rapporto di immedesimazione organica o di subordinazione).
In particolare, i soggetti elencati all’art. 5 del D. Lgs 231/2001:
- qualsiasi soggetto che all’interno dell’Ente riveste funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione;
- qualsiasi soggetto che all’interno di una unità organizzativa dell’Ente stesso, dotata di autonomia finanziaria e funzionale, riveste funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione;
- qualsiasi soggetto che esercita, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’Ente;
- persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei precedenti
Ovviamente la responsabilità dell’Ente è esclusa nelle ipotesi in cui i soggetti indicati abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
I reati presupposto ex D.lgs. 231/2001 legati allo sfruttamento della manodopera e ai delitti contro la personalità individuale
Il 9 agosto 2012 è entrato in vigore il D.lgs. n. 109/2012 (pubblicato sulla G.U. n. 172 del 25/07/2012) che ha introdotto nel D.lgs. 231/01 l’art. 25 duodecies – Impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare: “In relazione alla commissione del delitto di cui all’articolo 22, comma 12-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da 100 a 200 quote, entro il limite di 150.000 euro”.
In pratica viene estesa la responsabilità agli enti, quando lo sfruttamento di manodopera irregolare supera certi limiti stabiliti, in termini di numero di lavoratori, età e condizioni lavorative, stabiliti nel D.lgs. 286/98, il cosiddetto “Testo unico dell’immigrazione”. L’art. 25 duodecies, dopo il comma 1 prosegue:
1-bis. In relazione alla commissione dei delitti d cui all’articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote.
1-ter. In relazione alla commissione dei delitti di cui all’articolo 12, comma 5, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote.
1-quater. Nei casi di condanna per i delitti di cui ai commi 1-bis e 1-ter del presente articolo, si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a un anno.
L’altra casistica di reato presupposto ex D. Lgs 231/2001, concernente ipotesi di mala gestio nel campo delle risorse umane è l’articolo 25-quinquies denominato “Delitti contro la personalità individuale” riconducibile all’ipotesi di reato cosiddetto di caporalato così come definito dall’art. 603‐bis codice penale (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro): “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da € 500,00 a 1.000,00 per ciascun lavoratore reclutato, chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; 2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da € 1.000,00 a 2.000,00 per ciascun lavoratore reclutato. Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:
1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro”. Facile intuire come l’ambito applicativo del 603 bis c.p., nell’attuale versione modificata dalla L. 199/2016, non sia limitato a ipotesi di sfruttamento nei campi. Il tema del caporalato e dello sfruttamento può investire qualsivoglia settore produttivo, di servizi. Ciò è dimostrato dalle inchieste degli ultimi anni concernenti ipotesi di sfruttamento nella logistica e trasporti, nella grande distribuzione, nel settore della moda, ma anche nel turismo e nell’edilizia.
L’art. 603 bis c.p. individua, come sopra riportato, gli indici di sfruttamento in presenza “di una o più delle seguenti condizioni”:
- la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
- la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
- la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituisce indice di sfruttamento, quindi, la sussistenza anche di una sola delle condizioni sopra individuate dalla norma. Agli addetti ai lavori non può sfuggire la delicatezza del tema ma soprattutto quanto sia labile il confine tra presupposto di reato e comportamento lecito. La stesura della norma non aiuta in tal senso. I termini utilizzati lasciano ampi spazi di interpretazione e di rischio. La reiterazione di una condotta, da vocabolario della lingua italiana, altro non è che una ripetizione (anche una sola volta) della condotta medesima (Voc. Treccani “Fare di nuovo la stessa cosa, replicarla, ripeterla”). Del concetto di palese difformità dalla contrattazione collettiva ho già scritto in un precedente articolo di questa stessa rivista sul reato di caporalato (n.3/2023 ndr). Chi scrive, nonostante tutto, preferisce che sia la contrattazione collettiva a determinare il salario minimo e non una norma di legge. Tuttavia, se proprio si decidesse la via normativa, si ritiene l’art.603 bis del Codice Penale unico idoneo ad “ospitare” la determinazione di minimo salariale. Un importo che sia il confine tra lecito e illecito, tra sfruttamento e lavoro povero, valevole per tutti i lavori (subordinati, autonomi, parasubordinati).
Contesti di criticità: la catena della fornitura
Oltre alla possibilità di commettere i reati suesposti in via diretta, la responsabilità amministrativa può coinvolgere l’ente anche in via indiretta, nei casi di appalto/subappalto, di terziarizzazione di attività no core-business, laddove il reato sia commesso dalla catena della fornitura a vantaggio anche del committente o sub committente. Chiaramente il vantaggio del committente finale potrebbe essere consapevole o meno, doloso o colposo (negligente). Si pensi ad esempio ad una importante casa di moda che decidesse legittimamente di appaltare l’intera produzione a società terze dopo aver valutato e qualificato i fornitori, e questi a loro volta decidessero, ad insaputa della prima, magari anche in costanza di clausole contrattuali con divieto di subappalto, di subappaltare alcune fasi di produzione (se non tutte) a laboratori di pochi scrupoli con impiego di manodopera irregolare e clandestina. Diversamente, sempre a titolo di esempio, il caso della società di distribuzione che consapevolmente, al fine di ottenere vantaggi di natura fiscale e finanziaria, affidasse la logistica a cooperative “cartiere” con assunzione di personale a orario parziale, con impiego invece per oltre 10 ore giornaliere e mancato pagamento delle ore di effettivo lavoro e del lavoro straordinario, oltre alla mancata ottemperanza agli adempimenti fiscali e contributivi.
La L. 161/2017 apportò significative modifiche al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (Decreto Legislativo 159 del 6 Settembre 2011). Una di queste è stato l’inserimento nell’art. 34 del D. Lgs 159/2011 della previsione dell’amministrazione giudiziaria nei casi connessi all’art. 603 bis del Codice Penale. Quando sussistono sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di attività economiche- imprenditoriali possa “agevolare” l’attività di persone sottoposte a procedimento penale per i delitti di cui all’art. 603 bis del Codice Penale, il tribunale competente per l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti dei suddetti soggetti dispone l’amministrazione giudiziaria delle aziende o dei beni utilizzabili per lo svolgimento delle loro attività economiche.
Tornando quindi ai nostri esempi, l’importante casa di moda che con la propria attività economica ha “agevolato” il laboratorio tessile al compimento di delitti di cui all’art. 603 bis del c.p. e per i quali delitti i rappresentanti sono stati sottoposto a procedimento penale, sussistendone i requisiti di legge, subirà l’amministrazione giudiziaria ex art. 34 D. Lgs 159/2011. Il soggetto “agevolato” dalle attività economiche di un soggetto “agevolatore” deve appartenere ad una delle due categorie di soggetti individuate dal legislatore: 1) coloro ai quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione personale o patrimoniale; 2) persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei reati presupposto individuati nella stessa; tra questi rientra anche la fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p.
Il soggetto “agevolatore”, nel nostro esempio la casa di moda, nell’ambito della disciplina ex art. 34 D.lgs. 159/2011 invece, ha svolto un’attività ausiliaria, non necessariamente di natura illecita in quanto con la propria attività economica ha agevolato i soggetti sottoposti a procedimento penale. Il soggetto “agevolatore”, quindi, si muove nell’ambito della colpa, della negligenza, senza oltrepassare la soglia della piena consapevolezza o del dolo laddove si rischierebbero ipotesi di concorso nel reato, ma anche il commissariamento giudiziale ex art. 15 del D. Lgs 231/2001 applicabile in quanto l’attività criminale è compiuta consapevolmente nell’interesse dell’impresa.
Gli strumenti della compliance a tutela dei datori di lavoro: il modello organizzativo 231
In questo contesto, è importante che i soggetti economici realizzino attività di compliance non necessariamente obbligatorie per legge, al fine di proteggere le attività economiche, i patrimoni aziendali, l’immagine costruita nel tempo. Una di queste è l’adozione di idonei modelli di organizzazione gestione e controllo ex D.lgs. 231/2001.
Adozione preventiva
La decisione virtuosa di adottare un modello di organizzazione gestione e controllo ex D.lgs. 231/2001 dimostra la volontà della governance aziendale di mettere in campo procedure, principi di comportamento, rafforzamento dei presidi di controllo interni, tutte attività volte a minimizzare il rischio di commettere reati 231. Se si pensa alla catena della fornitura, che abbiamo visto essere in questi ultimi anni miniera di rischio-reato per aziende anche di rilevanza nazionale ed internazionale, è importante prevedere dei rigidi controlli nelle attività affidate a terzi, sia nella fase di selezione che nella successiva di qualificazione e monitoraggio. A titolo di esempio possiamo citare opportune verifiche reputazionali su fornitori e loro rappresentanti, il possesso di certificazioni internazionali, l’adozione di Codici Etici o di modelli di organizzazione controllo e gestione 231 a loro volta.
Ancora la verifica di regolarità in materia di sicurezza e/o di assicurazione e contribuzione, il rispetto di CCNL maggiormente rappresentativi sul piano nazionale. Un aspetto molto importante e spesso sottovalutato, anche per via dei costi che comporta è organizzare ed effettuare audit specifici presso i fornitori, appaltatori/ subappaltatori. Particolari attenzioni vanno rivolte anche all’interno delle organizzazioni e non solo alla fase di terziarizzazione. Il settore agricolo è, non a caso, l’origine del reato di caporalato disciplinato dall’art. 603 bis del Codice Penale. Le società agricole che decidono di adottare un modello di organizzazione, gestione e controllo ex D.lgs. 231/2001 non possono prescindere dal prevedere rigide procedure volte ad evitare la commissione di reati in materia di impiego di cittadini privi di permesso di soggiorno, di conseguenza prevedere ruoli e presidi di controllo in fase di selezione di manodopera extra comunitaria, di rilevazione delle situazioni di alloggio e naturalmente di inquadramento contrattuale, rispettando sia la contrattazione nazionale che quella territoriale (tipica del settore agricolo). Adottare un modello organizzativo 231, che sia il più possibile tailor made, che non sia solo un manuale standard, nominare organismi di vigilanza competenti, scelti con curriculum vitae adeguati alla realtà aziendale, garantisce sicuramente prevenzione verso la commissione di reati presupposto, e anche efficienza organizzativa attraverso una maggiore efficacia dei controlli interni, formalizzati, portati a conoscenza attraverso le opportune attività di formazione e informazione degli interessati.
L’ampliamento nel tempo dei reati presupposto, l’attenzione in particolare delle procure ai reati verso la pubblica amministrazione, la previsione di sanzioni fino all’interdizione dell’attività, fanno sì che oggi adottare un modello organizzativo 231 non sia più questione per “grandi aziende”. Al contrario dimostrare attenzione all’organizzazione in ottica esimente aumenta sicuramente la reputazione della realtà economica e la possibilità di operare sul mercato, soprattutto quali fornitori di grandi aziende. Il D.lgs.231/2001, tuttavia, offre possibilità di tutela anche nei casi di adozione successiva alla commissione di reati o all’amministrazione giudiziaria ex art. 34 D.lgs. 159/2011.
Adozione successiva
Alcune rilevanti indagini degli ultimi anni, in particolare da parte della procura milanese, hanno visto importanti aziende subire la disposizione dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 D.lgs. 159/2011. Tuttavia, al contempo, il Tribunale imponeva agli amministratori
giudiziari un’attività di “bonifica” attraverso l’adozione (o il miglioramento nel caso di modelli già esistenti) di modelli organizzativi ex D.lgs. 231/2001 tanto che in alcuni casi, il raggiungimento di risultati concreti nel breve periodo hanno consentito la revoca, prima del termine, dell’amministrazione giudiziaria. Un secondo aspetto, a parere dello scrivente è altresì importante, ed è quanto previsto dall’art 17 del D.lgs. 231/2001 “Riparazione delle conseguenze del reato”. La possibilità per l’ente di rimediare ad una situazione di illegalità ravvisata in sede di indagine, beneficiando di un’attenuazione delle sanzioni. Il comma 1, infatti, recita “Ferma l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni:
a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
b) l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
c) l’ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca”.
Possiamo constatare come l’adozione di modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.lgs. 231/2001 oggi ha un ruolo incostante evoluzione quale strumento anche riparatorio e non solo di prevenzione. Proprio quando assume la veste riparatoria lo stesso strumento diventa complesso. L’ente infatti deve dimostrare di aver adottato un sistema di organizzazione esimente e depositare il modello entro i termini ristretti della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, evitando superficiali self cleaning o manuali del tutto standardizzati.
Lo strumento del modello di organizzazione, gestione e controllo ex D.lgs. 231/2001 riveste un’importanza notevole a garanzia di un’organizzazione sostenibile (del resto la catena della fornitura è uno degli aspetti più importanti nella rendicontazione ESG-ambito Social), efficace nel presidiare la commissione di reati presupposto, tutelare le attività economiche e i relativi patrimoni aziendali. Probabilmente l’efficacia esimente del modello verrà preservata fintanto che l’adozione non diventi un processo obbligatorio per legge (auspicato da molti soggetti interessati alla compliance di massa), quindi generando modelli del tutto standardizzati e probabilmente destinati a raccogliere polvere sugli scaffali aziendali.
A cura di: Marco D'Orsogna Bucci, Dottore Commercialista del Lavoro e Revisore Legale
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